E’ ormai noto che i pazienti reduci da un infarto o da un altro evento cardiovascolare dovrebbero tenere a bada il colesterolo, in particolare quello cattivo, l’LDL. Ma in realtà le cose vanno in modo molto diverso, tanto che solo una minoranza raggiunge gli obiettivi raccomandati dai cardiologi e  dalle indicazioni delle società scientifiche internazionali.

La maggior parte dei pazienti infatti oltre a non essere aderente alla terapia, spesso se la riduce o la sospende una volta raggiunti valori accettabili di colesterolo, ritenendo di aver “risolto il problema”.

Una conferma di ciò che accade nella realtà quotidiana arriva dall’annuale congresso della Società Europea di Cardiologia dove è stato presentato lo studio Da Vinci, una ricerca cui hanno partecipato 18 Paesi europei, inclusa l’Italia, e che ha coinvolto circa 6000 pazienti. Principale obiettivo dello studio era valutare come venivano trattati i pazienti e se la terapia in atto consentiva di raggiungere i target indicati dalle linee guida.

La terapia

Per quanto riguarda la terapia effettuata, alla maggior parte dei pazienti erano state prescritte le statine, associate nel 9% dei casi a ezetimibe, il farmaco che contrasta l’assorbimento del colesterolo, mentre solo una minima percentuale di pazienti, l’1%, assumeva un inibitore del PCSK9, i nuovi farmaci ipocolesterolemizzanti. La metà dei pazienti reclutati nello studio Da Vinci era ad alto rischio. Si trattava di pazienti che avevano avuto un evento cardiovascolare: un infarto miocardico nel 22% dei casi e un ictus nel 40% circa dei casi, mentre poco meno del 40% era rappresentato da pazienti con un’arteriopatia periferica.

L’età media era di 68 anni e nel 40% dei casi i pazienti erano anche diabetici. In base agli score per il calcolo del rischio, l’82% aveva una probabilità superiore al 20% di avere un nuovo evento cardiovascolare a 10 anni.

Risultati

Proprio in questi pazienti i risultati della ricerca erano deludenti.

Solo il 39% dei pazienti in prevenzione secondaria raggiungeva il target delle linee guida del 2016, vale a dire 70 mg/dl – prosegue il ricercatore -. Se poi consideriamo le nuove indicazioni del 2019, solo il 18% raggiungeva un valore inferiore ai 55 mg/dl. A conseguire gli obiettivi erano soprattutto i pazienti che assumevano la statina più ezetimibe (il 54% raggiungeva il target 2016, ma solo al 20% il target 2019) e quelli trattati con gli inibitori del PCSK9 che raggiungevano il target 2016 nel 67% dei casi e il target 2019 nel 58%.

I pazienti andrebbero seguiti in ambulatori dedicati di prevenzione secondaria da uno staff di medici che aiuti i pazienti a comprendere meglio come la continuità terapeutica sia il primo passo per raggiungere i corretti livelli di colesterolo e di conseguenza ridurre il rischio di ricadute in termini di infarti, ictus o altri eventi cardiovascolari. Un’altra possibilità di miglioramento è rappresentata da un maggior utilizzo di ezetimibe, ma anche degli inibitori del PCSK9.

Un’indicazione di come sia possibile raggiungere i target terapeutici raccomandati arriva da un’altra ricerca presentata al congresso europeo, lo studio Heymans.

Si tratta di uno studio osservazionale attualmente in corso in undici Paesi europei, inclusa l’Italia, che ha l’obiettivo di verificare le differenze fra le raccomandazioni delle linee guida e quello che succede nel mondo reale con uno dei nuovi farmaci per il controllo del colesterolo, un inibitore del PCSK9.

Gli oltre 1800 pazienti arruolati erano a rischio molto alto e oltre l’85% aveva già avuto un evento cardiovascolare, inoltre, al momento del loro ingresso nello studio, presentavano un livello di colesterolo LDL medio di 150 mg/dl, un valore estremamente elevato rispetto al loro profilo di rischio.

La terapia ha consentito di ridurre il colesterolo LDL di circa il 60%, un dato importante che conferma come anche nella reale pratica clinica questi farmaci siano oggi i più potenti nella riduzione del colesterolo LDL

Una riduzione cui dovrebbe corrispondere nel tempo una diminuzione del rischio di eventi cardiovascolari futuri.

Una riduzione del 60%, vale a dire di circa 90 mg/dl, comporta una riduzione del rischio importante, sia in termini relativi, sia in termini assoluti: si può addirittura stimare una riduzione a 10 anni del rischio assoluto fra il 12 e il 14%